Il percorso verso l’armonia dei rapporti tra Stato e Chiesa in Ucraina
Pubblichiamo di seguito, la Conferenza tenuta dal Nunzio Apostolico a Leopoli il 18 novembre 2019, in occasione del III Congresso Internazionale del Movimento “Europa Christi”: “L’influsso del cristianesimo sulla stabilità dei popoli d’Europa”.
Chi esamini lo sviluppo dei rapporti tra Stato e Chiesa dopo la caduta del regime sovietico non può che rallegrarsi per i risultati raggiunti. Tanto più che il regime precedente, anche se ideologicamente, nel pensiero dei suoi padri, non arrivava ad affermare la necessità di distruggere ogni forma di religione nello Stato marxista, in realtà, sia pur con vicende e tempi diversi a seconda delle convenienze socio-politiche, ha determinato un attacco frontale alla religione e ne ha promosso la persecuzione in vista della stessa estinzione.
Senza bisogno di una revisione ideologica, la caduta dell’Unione Sovietica ha di fatto comportato il rinascere della tolleranza nei confronti delle religioni.
Questo non significa però, proprio per la mancanza di una riflessione profonda al riguardo, che sia caduto un presupposto che il pensiero marxista e la prassi collegata ha ritenuto inevitabile: come, allo scopo di ottenere qualsiasi diritto, era necessario il riconoscimento e l’esplicita conferma dello Stato, così doveva accadere con la religione. Secondo tale impostazione è lo Stato che riconosce, per sua accondiscendenza, l’esistenza di un diritto e l’applicazione di esso.
La struttura degli uffici preposti alle religioni ed ai culti, in questa prospettiva, continua a conservare per sé, anche in modo implicito, la pretesa di stabilire e normare il diritto alla libertà di religione.
Questa impostazione non poteva non contrastare con la dottrina della Chiesa cattolica, la quale sostiene che la religione e il libero esercizio di essa non vengono dalla concessione dello Stato, ma sono iscritti direttamente da Dio nella natura. È dunque un diritto primario, cioè tale da esistere anche se lo Stato non lo riconosce. La stessa retta ragione, quindi non necessariamente la fede, è in grado di riconoscerlo. Allo Stato spetta il diritto di gestire in concreto l’esercizio della religione, in modo che esso non nuoccia al retto ordinamento della società, non vada contro l’ordine costituito o non determini discriminazioni tra le varie religioni.
Non si tratta, a dire il vero, di un problema solo religioso: questo atteggiamento dello Stato come fonte del diritto riguarda un po’ tutti i settori della vita civile, sicché risulta difficile ammettere che la persona e la comunità religiosa abbiano diritti indipendentemente dal riconoscimento dello Stato: questa “assolutizzazione” dello Stato (che vuol dire in pratica delle autorità che lo dirigono) non rende facile il cammino neppure per il riconoscimento di altre forme di libertà sociali, poiché rimane nell’autorità la pretesa implicita di esserne la fonte e nei sudditi la paura a richiederle, vista tale pretesa dello Stato.
Va detto che questa impostazione non è conseguenza del solo marxismo, ma che la sovranità esercitata nei secoli precedenti non si discosta dal metodo di considerare il sovrano come garante di ogni diritto lecito e gestore del modo di praticarlo. Le monarchie di diritto divino sono diverse solo formalmente, in questo aspetto, dalla dittatura del proletariato. Entrambe infatti concretamente negano il diritto alla libertà in sé, ma solo subordinandolo al riconoscimento da parte dell’autorità costituita.
L’Ucraina, nei suoi anni di sviluppo post-comunista, rimane ancora implicata nella ricerca di un metodo di garanzia per i diritti umani. Restano ancora presenti due ostacoli nel cammino di una più chiara e lucida interpretazione dei diritti umani e del loro esercizio concreto.
Il primo ostacolo è dato dal persistere della mentalità di cui ho parlato: all’ufficio preposto alla libertà religiosa si va “con il cappello in mano”, cioè come un servo che chiede al padrone un favore. Basti pensare al tema della restituzione degli edifici religiosi, sottratti dal furto marxista. Questo atteggiamento determina poi il tentativo di arrivare ad ottenere quanto in realtà dovrebbe essere indiscutibile, attraverso un sistema di mediazioni, donativi, intercessioni, scambi, adulazioni che esula completamente dalla natura stessa della libertà religiosa. Si verifica così una lotta tra le stesse religioni per farsi amico il potere e, possibilmente, per porre una di esse come espressione ufficiale del potere stesso. Questa ricerca di un legame o abbraccio tra Stato e Chiesa è in parte inevitabile, nella misura in cui lo Stato comunque deve normare l’esercizio della religione in settori che possano risultare delicati per la sicurezza comune, e la religione, essendo non solo una dottrina o un culto, ma anche una ispirazione della società, entra nel campo della gestione dei cittadini, singoli o gruppi, nella quale è implicato anche lo Stato. Questo fenomeno cresce tanto più, quando poi esiste la convinzione che Stato e Chiesa (ma “una” Chiesa, necessariamente a scapito delle altre) sono i rappresentati congiunti dei diritti della propria “nazione”.
Un secondo problema, molto più recente in termini di tempo, è dato dal fatto che Stati, o gruppi di Stati, propongono alle aree prima sottoposte a regimi totalitari i vantaggi economici di una collaborazione che potrebbe garantire arricchimento e difesa militare in caso di attacco nemico.
Ciò presume che questi Stati, che sono certamente più sviluppati dal punto di vista sociale e che considerano sé stessi i maestri ed i modelli nel costruire una società giusta e illuminata, offrano aiuti economici, alleanze e collaborazioni, non senza un proprio tornaconto, a patto che gli Stati che ricevono tutto ciò accettino l’intero sistema ideologico che ispira gli Stati “donatori” e modifichino il proprio secondo le leggi di questi.
In concreto, oggi, l’Occidente chiede all’Ucraina, ma non solo, di adottare una intera impostazione della vita pubblica, definita come “democratica”, in cambio dei propri aiuti. È indubbio che l’Occidente abbia elaborato nel tempo un sistema di valori sviluppato e progressivo, non senza fatica e contrapposizioni interne, ed anche per le condizioni politiche relativamente più favorevoli. È indubbio anche che questo sia stato spesso contraddittorio e lo sia soprattutto in questi tempi, in cui vi sono diritti riconosciuti che letteralmente ne “mangiano” altri. Ora, per i popoli che non hanno potuto condividere tutta questa crescita progressiva, tale atteggiamento di imporre idee in cambio di danaro può creare una forte reazione negli abitanti dello Stato costretto a recepire tali indicazioni.
In questo contesto le religioni verranno considerate dai “benefattori” occidentali come un ostacolo tradizionalista e retrogrado allo sviluppo della società. Spesso dunque i contenuti del pensiero sociale delle religioni appariranno come incompatibili con i principi elaborati dal pensiero laico occidentale.
Come si agisce allora? Esercitando una forte pressione sui governanti, in modo da obbligarli a prescindere dal pensiero e dalla sensibilità delle religioni. Si adotta così un metodo molto analogo a quello del servilismo che ho sopra descritto: si va, non “con il cappello in mano”, ma “con il portafoglio in mano” dal capo politico e gli si promette di consegnare il portafoglio solo se accetterà le condizioni ideologiche imposte.
Qui non si tratta però solo di prendere le distanze dalla dottrina religiosa, ma anche dalla sensibilità di una grande parte del popolo che è stata impregnata da quelle dottrine, anche se non ha avuto un’esperienza religiosa attiva e militante.
A questo punto alle religioni non resterebbe che esercitare il diritto all’ “obiezione di coscienza”, cioè al rifiuto di eseguire quelle azioni che, previste dalla legislazione modificata su imposizione esterna, venissero considerate incompatibili con i propri principi.
Spesso però neppure questa ipotesi viene garantita. Se l’obiezione di coscienza è stata introdotta per dichiarare ingiusto tutto quanto impediva la realizzazione di un diritto sociale, e quindi come uno strumento di difesa della libertà, in questo nuovo contesto l’obiezione di coscienza è considerata come l’ultimo strumento a disposizione delle ideologie tradizionaliste, per negare i diritti di coloro che, attraverso le norme imposte dall’esterno, potranno essere più liberi nei loro comportamenti. Avverrà pertanto che la stessa obiezione di coscienza sia considerata, all’opposto di un tempo, come ostacolo al riconoscimento dei diritti, e dunque proibita e ostacolata, proprio su pressione di coloro che, un tempo, la usarono per preservarsi dalle discriminazioni.
Come uscire da questa problematica che rischia di compromettere il rapporto tra religioni e Stato? Tornando al vecchio totalitarismo o al fondamentalismo? Ovvio che no.
Anzitutto rifiutando il principio di questa colonizzazione come esportazione di un metodo di civiltà. È evidente che un atteggiamento servile nell’acquisire i valori su cui si basa la convivenza della società non può costituire un segno di progresso, anche se molti dei contenuti possono essere oggettivamente validi: l’imporli fa perdere ad essi il sapore della libera conquista culturale.
Certo, le religioni hanno l’obbligo di esaminare le proprie convinzioni sociali e di purificarle, qualora contraddicessero ai propri principi di fondo o contenessero elementi violenti o discriminatori nei confronti di altre persone. Anche le religioni, infatti, debbono rendersi conto che le loro dottrine sociali cambiano nel tempo, influenzate da fattori storici ed ideologici estranei. Quando negassero questo principio, è solo perché non conoscono la loro storia e sono vittime di un’ideologia semplificativa. Il cristianesimo in particolare non deve e non può ricorrere ad alcuna forma di violenza e discriminazione, né approvare il sopruso su qualsiasi persona o parte della società, se vuol essere fedele al Vangelo. Quando la religione ricorre alla violenza, significa che non ha più risorse per essere se stessa, e che è disperata e fragile.
Le religioni dovranno inoltre garantire la propria giusta autonomia nei confronti dello Stato e dunque rispettare anche coloro che non professano la religione. Non è imponendo allo Stato la propria convinzione che si riesce a far maturare la società.
Lo Stato, da parte sua, non accetterà i ricatti che gli provengono dall’esterno, perché non è giusto in sé e perché potrebbe provenirgliene una forte opposizione interna che impedirà di adottare anche provvedimenti legittimi di promozione della libertà e che potrebbe portare allo stesso rigetto dell’autorità politica che cede al ricatto.
E come la religione non potrà imporre attraverso il potere politico l’obbedienza alle proprie norme morali, così lo Stato non si atteggerà a “proprietario” delle religioni, rendendo la vita di esse continuamente soggetta a prescrizioni burocratiche non solo non necessarie, ma ormai superate e del tutto illegittime, quando non violente e sopraffattorie. Le religioni non hanno bisogno di un tutore e tanto meno di un padrone esterno.
Ciò che è ad un tempo ideale e strumento per un progresso interiore della società, è il coinvolgimento della popolazione nel dibattito di crescita interno, senza crociate, senza pogrom, senza proibizioni, se non per impedire violenze o disordini sociali. È la gente, e soprattutto coloro che nella società hanno un compito necessario di guida e di mediazione, come insegnanti, medici, dirigenti, ecc. ad aiutare la gente a scegliere quelle libertà che vanno ritenute utili e buone. Anche questo infatti è parte della “democrazia”. È invece difficile definire “democrazia”, per evidente contraddizione “in terminis”, l’obbligo di introdurre norme “democratiche” per imposizione. È ovvio che vi sono tradizioni che vanno modificate e forse, in parte, abolite. Ma è anche chiaro che è necessario facilitare questo processo attraverso la promozione di un vero dibattito, di un confronto rispettoso di tutti e alieno da ogni violenza, aperto ad una verità che ci precede sempre e che non possediamo interamente ed esclusivamente. Ma alla fine sarà sempre la società a stabilire i principi che ritiene di darsi e i modi per applicarli.
Credo che questo ampliamento del dibattito, questa maturazione sociale, questa crescita nella coscienza del bene comune sia quanto si rende necessario a garantire anche un giusto esercizio del diritto alla libertà religiosa in Ucraina oggi. La religione non deve avere paura del confronto, ma non deve essere messa a tacere per principio. Ma anche ogni sana autorità civile sa che suo primo scopo è aprire la mente della società, creando persone più profonde, meno emotive, più capaci di usare il cervello e più attente al bene di tutti. Si guarderà bene pertanto dall’usare le religioni per manipolarle.
Incoraggiare questo cammino di responsabilità nella ricerca, anche con l’apporto delle religioni, è vera democrazia e autentico strumento di crescita comune.