VALORI CRISTIANI NELL’UTOPIA SOCIALE – Conferenza di S.E. Mons. Claudio Gugerotti, Nunzio Apostolico in Ucraina, all’Universita’ Nazionale “Taras Shevchenko” di Kyiv – Facoltà di Filosofia, “The Fourth Tancher’s Readings”, 30 ottobre 2018

Vi è un’isola misteriosa: il suo nome è utopia. In greco significa “non-luogo” o “luogo che non c’è”, ma pronunciata in inglese (perché inglese è l’autore che la descrive) significa, sempre riferendosi al greco, anche “luogo bello”. L’ha visitata per caso un uomo, chiamato Raffaele Itlodeo (cioè “contaballe”), che poi ne riferisce durante un incontro salottiero dell’aristocrazia inglese. Su quell’isola tutto avviene in modo strano: gli abitanti si dedicano all’agricoltura, salvo poche eccezioni autorizzate e lavorano per sei ore al giorno. Non vi è la proprietà privata, per cui si va e si prende quello che serve. Perché accumulare o rubare, se c’è sempre per ciascuno quanto è necessario? Le città sono tutte uguali, e tutte alla stessa distanza una dall’altra; anche gli abiti degli abitanti sono uguali tra di loro. Ogni carica politica è strettamente vincolata alla base e, dunque, elettiva e temporanea, per evitare quanto maggiormente temono i suoi abitanti: che si instauri una tirannia. Tutti sono egualmente impegnati nel lavoro: così non si formano aristocratici o preti fannulloni. Non ci sono ricchi, a differenza del mondo europeo “dove tutto si misura in funzione del denaro (…) per soddisfare vanità e lusso”. Il ferro è il metallo più prezioso, mentre l’oro e l’argento servono per costruire i vasi da notte e le catene per gli schiavi. Le pietre preziose sono date ai bambini perché vi giochino. Un giorno viene a visitare Utopia un gruppo di ambasciatori, detti “anemoli” (che significa “fatti vento”, cioè vanitosi). Arrivano con abiti splendidi, coperti proprio di oro e di pietre preziose e serviti da centinaia di schiavi. Al vederli, tutti scoppiano a ridere, perché questi stranieri esibiscono con orgoglio proprio quello che ad Utopia è disprezzato. Così i bambini si rivolgono alle madri, dicendo: “guarda che buono a nulla deve essere quel tipo, che alla sua età si diverte ancora con pietre e perle, come un bambino”. E la madre risponde: “Ma no, si tratterà di qualche pagliaccio dell’ambasciata”. Il commento di Raffaele è molto esplicito: gli abitanti di Utopia “trovano sconcertante che qualcuno possa lasciarsi suggestionare dal vacillante splendore di una minuscola pietra quando potrebbe contemplare una stella oppure il sole; oppure che uno possa sentirsi superiore all’altro perché indossa una lana più fine, quando quella lana viene comunque da una pecora che, per quanto pregiata, sempre pecora è rimasta. Trovano allo stesso modo singolare che l’oro, per sua natura tanto inutile, sia oggi tenuto in tale considerazione dovunque da contare più della stessa vita umana, pur essendo stato l’uomo a dargli tutto quel valore. Per non parlare del fatto che il più rozzo degli individui, dotato dell’intelligenza di una bestia e di uguale onestà, possa tenere soggiogata una schiera di uomini saggi e di buoni sentimenti per il solo fatto di possedere una riserva di monete d’oro. Salvo diventare poi lui il servo del più spregevole dei propri servi se questo, per un rovescio di fortuna o un cambiamento delle leggi, diventa a sua volta padrone dell’oro”. In Utopia si stupiscono molto quando scoprono che noi europei facciamo di tutto per distinguere una cosa preziosa da una imitazione. Si chiedono perché mai una cosa falsa, che non si distingue da quella vera, dovrebbe essere disprezzata se l’effetto piacevole che reca è lo stesso.

Ad Utopia vi è una tale professionalità nel curare (gratuitamente, è ovvio) i malati che la gente preferisce il letto dell’ospedale a quello di casa sua. I malati incurabili vanno trattati con la massima cura e affetto.

Egualmente in città si mangia insieme e i pasti sono preparati a turno dalle donne più capaci. Perché infatti mangiare a casa propria se si può risparmiare la fatica di cucinare e la qualità è migliore? I bocconi più prelibati sono riservati agli anziani e, nella conversazione, è particolarmente importante il parere dei giovani.

Il piacere è la cosa più desiderata, purché non ne derivi un male a qualcuno, e dunque non sia disonesto. La loro religione tiene nel massimo conto la felicità. Si deve amare e rispettare, oltre che gli altri, anche se stessi. Se infatti la felicità è per tutti, mentre cerchi di procurarla agli altri, perché dovresti privarne te stesso? Uno dei piaceri più apprezzati è quella serenità che deriva dalla coscienza di avere operato rettamente. Ideale poi è quello di ottenere, più ancora che il piccolo piacere quotidiano, “la ricompensa divina di un premio eterno e senza limiti”. Il corpo è onorato e ben conservato. Perché infatti infliggersi pene o privazioni (a meno che non lo si faccia per aiutare gli altri), per abituarsi ad affrontare le difficoltà della vita che forse non arriveranno mai?

Agli Utopiani piace intrattenersi a colloquio con persone particolarmente intelligenti e con quelli che hanno viaggiato e conoscono paesi diversi dal proprio.

Il matrimonio è trattato molto seriamente, e chi tradisce il coniuge viene ridotto in schiavitù. Niente sesso prima delle nozze. La ragione è chiara, dice con umorismo Raffaele: se fosse così facile avere rapporti sessuali fuori del matrimonio, chi si sposerebbe, con tutti i fastidi che ne derivano, essendo per di più il matrimonio indissolubile? Guai però a lasciare la propria moglie, se per un incidente ha perduto la sua bellezza.

Nella vita politica, “chi rivela di ambire a cariche perde ogni possibilità di ricoprirle”. Le leggi devono essere poche e chiare, per non dar ragione agli avvocati di imbrogliare con i loro cavilli. I popoli vicini importano per un certo tempo i magistrati di Utopia. Sapendo, infatti, che eserciteranno il loro compito per un breve tempo e non conoscendo i cittadini, non sono tentati di essere comprati o non obiettivi nei processi. In questo caso, infatti, “non c’è più giustizia, né senso dello stato”. Si rifiutano di stringere trattati: perché dovrebbero farlo popoli che sono separati solo da una collina, quando già la natura li lega con un suo patto? Solo in Europa, “dove regnano la fede e la dottrina di Cristo”, i patti sono sacrosanti, per la bontà e la rettitudine dei principi e per rispetto dei papi, che ne impongono l’osservanza. Quest’ultima frase è di un sarcasmo estremo, ma ben riproduce cosa l’autore pensi della falsità con cui in Europa si esige, come egli stesso dice, la giustizia dal popolo, mentre il potente può concedersi quello che vuole.

La guerra è considerata cosa da belve, “per quanto nessuna belva la pratichi così abitualmente come l’uomo”. Per questo a Utopia è detestata.

Vi sono varie religioni in Utopia, e tutte sono accettate. Anche quella cristiana, purché non abbia la pretesa di imporsi agli altri, affermando che, se non si convertono, bruceranno nell’inferno. Chi la pratica, dovrà limitarsi ad illustrare serenamente i pregi della propria, senza demolire con acidità quelle altrui. Chi è intollerante, infatti, è punito con l’esilio o la schiavitù.

I sacerdoti devono essere pochi, per evitare che altrimenti si perdano nell’ozio. Loro merito principale è quello di educare bambini e giovani ai sani princìpi ed allo studio. Ciascuno di loro è così rispettato che, qualora commetta qualche azione illecita, “non viene nemmeno processato, ma abbandonato solo con la propria coscienza davanti a Dio”. Essi spesso, durante la battaglia, intercedono perché il nemico sia risparmiato. Nelle chiese non vi è nulla che sia offensivo per la religione degli altri, visto che tutti hanno un tempio in comune. Gli atei sono rispettati, ma non possono avere cariche pubbliche, perché, non credendo alla ricompensa o alla dannazione eterna, sarebbero tentati di difendere solo i propri interessi.

Raffaele conclude ricordando quello che per lui è il perno della vita ad Utopia: la mancanza della proprietà privata. Questa è la ragione: “Altrove (cioè in Europa, ndr), come si sa bene, non si fa che parlare dei diritti pubblici, ma poi ci si occupa solo di quelli privati. Qui, invece, non essendoci nulla di privato ci si occupa sul serio delle questioni pubbliche”.

Un esempio è dato dal fatto di come si mantiene nell’abbondanza anche chi ha smesso di lavorare, per ragione di età. È tragico, infatti, quando si lavora, pensare che il danaro non è mai sufficiente e diventa una sofferenza disumana quando non si ha possibilità di accantonare nulla per la vecchiaia. “Non è dunque un arbitrio ed un’ingratitudine che lo stato sia così generoso verso i cosiddetti nobili, banchieri ed altri profittatori o sfaccendati, ed inventori di piaceri inutili, e non mostri nessuna solidarietà per fabbri e carbonai, manovali e carrettieri, senza dei quali non esisterebbe affatto? Non è un’ingratitudine nerissima che dopo aver sfruttato la loro forza giovanile, finché erano nel fiore degli anni, li abbandoni poi quando le forze vengono meno sotto il peso dell’età e delle malattie, quando ormai hanno bisogno di tutto, ripagandoli delle loro fatiche e dei tanti servizi ricevuti con una morte miserevole?”.

In sintesi Raffaele riprende il nucleo del suo pensiero sugli Utopiani: “I ricchi si avvalgono dei loro subdoli sistemi nel nome dello stato, cioè anche nel nome dei poveri, e così diventano legge. Ma quanto è lontana tuttavia dal cuore di questi uomini immorali, che avidamente dividono fra loro beni che sarebbero potuti bastare a tutti, la felicità della repubblica di Utopia!

Raffaele commenta con i suoi compagni il suo entusiasmo per quanto ha visto ad Utopia. In particolare ciò appare chiaro, confrontandolo con la situazione sociale dell’Europa. Questo è oggetto di commento nella conversazione.

Centro di tutto è questo principio: “Mi sembra ingiusto sotto tutti i punti di vista che si debba togliere la vita a un uomo perché lui ha tolto del denaro a un altro. Non c’è ricchezza al mondo, per quanto ne so, che possa equivalere al valore di una vita umana”.

Nella discussione emergono i difetti della figura del re. Egli intende limitare la ricchezza e la libertà dei suoi sudditi: “l’una e l’altra renderebbero infatti il popolo meno mansueto di fronte alla prepotenza e all’ingiustizia, mentre la miseria e le privazioni contribuirebbero a renderlo docile e sottomesso, soffocando ogni nobile istinto di rivolta”. Ma il re esiste per il popolo: e allora che senso ha un re odiato dal popolo per averlo ridotto in miseria? Meglio che abdichi! È difficile poter chiamare re un individuo che provi piacere nel condurre una vita fastosa mentre intorno a lui si soffre e ci si lamenta. Egli è piuttosto il guardiano di un carcere”. Il re dovrebbe piuttosto guarire dai propri vizi, vivere dei propri beni personali, senza pesare sugli altri, adeguare le proprie spese alle rendite. “Dovrebbe prevenire la criminalità attraverso un’amministrazione oculata anziché lasciare che si diffonda per poi tentare di reprimerla con le pene”. Si deve rendere illegale l’accesso alle cariche pubbliche attraverso il danaro o l’intrigo. Se così avviene poi chi la conquista è tentato di rifarsi con frodi e estorsioni.

Uno dei gentiluomini presenti obbietta che senza la proprietà privata non vi sarebbe alcun incentivo all’azione, favorendo la pigrizia e scaricando il proprio lavoro sugli altri. Egli difende inoltre la civiltà occidentale, sostenendo che essa non è intellettualmente inferiore, anzi è più antica, consolidata nel tempo ed ha reso la vita più confortevole, anche attraverso numerose scoperte. Le idee esposte da Raffaele possono essere espresse in una piacevole conversazione tra amici, ma non in una riunione di governo. A ciò Raffaelle risponde: “Ecco, è quel che dico anch’io. Non c’è posto a corte per la filosofia”.

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Parlare dell’abolizione della proprietà privata in un Paese che ha sperimentato veramente quali siano stati i risultati dell’ideologia comunista, che proprio sull’abolizione della proprietà privata si fondava, sembra essere davvero un‘assurdità. Quel che conta, tuttavia, non è difendere le singole tesi esposte nel libro, ma comprendere da dove vengano e perché siano state elaborate.

L’autore di questi pensieri non è un contemporaneo, o un letterato che non si è mai staccato dalle sue carte. È Thomas More, nato a Londra nel 1478 e ivi morto nel 1535. Egli è certo uno degli esponenti più in vista dell’Umanesimo europeo, ma è anche un giurista e un uomo politico di primo piano: fu gran cancelliere del re Enrico VIII. Celebre per il suo umorismo, egli non fu sempre fedele ai suoi ideali, espressi in Utopia, ma seppe essere coerente fino in fondo con la propria fede: quando il papa si rifiutò di annullare le nozze del re dalla prima moglie, Caterina d’Aragona e poi, radicalizzandosi sempre di più, il re staccò la Chiesa d’Inghilterra da quella Cattolica, proclamandosi capo della sua Chiesa nazionale, Thomas non lo seguì: si dimise dal suo incarico. Quando gli fu chiesto di firmare l’Atto di Supremazia predisposto da Enrico VIII, egli si rifiutò per coerenza con la sua fede cattolica. Per questo fu decapitato. Una simile storia ci induce a prendere sul serio le idee che abbiamo descritto. Un uomo così non poteva essere solo un burlone.

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L’Umanesimo, come sapete, è un movimento di intellettuali che parte dalla riscoperta del mondo classico, greco e latino, accostandone i testi nella lingua originale e riscoprendone l’ideale morale. Dopo un mondo, quello medioevale, che anche nella sua cosmologia poneva Dio al centro di tutto, esso si sforza di dimostrare che l’uomo ha una sua profonda dignità e che scoprirla e rivelarla non è affatto un segno di ateismo, ma una dimostrazione che fu proprio Dio a volere questo ruolo speciale dell’uomo nell’universo.

All’interno di tale movimento, si creò, tra l’altro, uno spirito di forte contestazione della società contemporanea e proprio in nome dell’umanesimo, cioè della riscoperta del pensiero antico, della sua “paideia”, o cultura/educazione e del valore della persona umana. Gli Umanisti si tennero in stretto contatto tra di loro ed una corrente si occupò proprio di descrivere non tanto un mondo ideale, quanto un quadro che mostri la stupidità e la radicale ingiustizia di alcuni fenomeni che caratterizzano il mondo reale. Un caro amico di Thomas More è per esempio Erasmo da Rotterdam (1466/1469-1536), che comporrà un “Elogio della follia”, nel quale la stessa pazzia mostra quanto il mondo dipenda da lei in tanti aspetti. Egli scriverà anche un’altra operetta “Il lamento della pace”, in qui la pace svelerà la stoltezza di ogni guerra, in un tempo che fu, per l’Europa, tra i più bellicosi della sua storia. Thomas trascorse del tempo in monastero, ma decise di essere chiamato a costruirsi una famiglia. Erasmo fu un monaco agostiniano, anche se piuttosto vagabondo. Frate domenicano fu Tommaso Campanella (1568-1639), autore di un’altra descrizione “utopica”, “La Città del Sole”, il cui progetto, anch’esso fondato sull’abolizione della proprietà privata, egli addirittura tentò di realizzare nelle sue terre. Un parroco anglicano fu Jonathan Swift (1667-1745), autore di un romanzo, “I viaggi di Gulliver”, che tutti i bambini conoscono in Europa come un libro di avventure, ma che costituì una delle satire più violente contro la società del suo tempo. Al viaggiatore che si imbatte in diverse civiltà, sia quella dei nani, come quella dei giganti, come quella dove i cavalli sono saggi e nobili, mentre gli uomini selvaggi, sporchi e repellenti, si presentano mondi che lo aiutano a criticare aspetti frequenti di quello dove vive.

More morì decapitato ed è considerato dai Cattolici (ed ora anche dagli stessi Anglicani) un santo martire della coscienza; Erasmo vagabondò per l’Europa e spesso soffrì la fame; Campanella fu condannato da vari tribunali per le sue idee, e Swift non ottenne mai il ruolo di spicco che avrebbe desiderato. Sono tutti segni che gli “utopisti” non furono graditi al potere dominante. Considerando le idee che espressero, sia pur in forma metaforica, questo si comprende benissimo: ben pochi si sottrassero alle loro critiche, tanto più pungenti in quanto espresse in forma satirica, non risparmiando né aristocratici, né uomini della Chiesa, né intellettuali dominanti nella cultura del tempo. Di tutti mostrarono le contraddizioni con quanto professavano e, cosa ancor più bruciante, la sostanziale stupidità.

Per gli Umanisti, infatti, la ragione dev’essere liberata dai freni e dalle inibizioni di chi comanda e soprattutto ha il diritto di mettere in discussione quei princìpi che, per non cambiare in meglio la società, si vogliono invece considerare intoccabili. Del resto avete sentito come molti punti di “Utopia” siano ancora molto attuali. Dietro ad ogni immagine, c’è l’esatto contrario, praticato ogni giorno nell’Inghilterra di Thomas More: la società è mossa solo dai soldi, il ricco umilia e opprime il povero, la guerra è la principale occupazione, non esiste assistenza per i malati poveri e per i pensionati, la corruzione invade tutti i settori, soprattutto quello della giustizia, le cariche si comprano, la tolleranza religiosa è ignota, l’eleganza è esibizione di quanto di più pacchiano (oggi diremmo “kitch”) esiste, ecc. Tale critica degli “utopisti” raggiunse a volte una spietatezza unica: basti pensare alla “Modesta proposta” di Swift, un “pamphlet” in cui si sostiene (ovviamente in modo provocatorio) che, per sottrarre l’Irlanda alla miseria in cui vive, sia opportuno ingrassare per bene i bambini, figli dei poveri, che nascono e, dopo il primo anno, consegnarli perché siano mangiati sulle mense dei nobili, essendo una carne particolarmente gustosa. In questo modo si libererebbe l’Irlanda dalla sua povertà e si delizierebbero i palati di coloro che la mantengono in tale condizione.

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La teologia speculativa non riveste il loro principale interesse. Eppure è proprio la fede un aspetto essenziale che consente loro di esprimersi come fanno, per poi pagarne le conseguenze. Andiamo a riassumere alcuni dei punti che possono giustificare questa tesi.

L’uso così sistematico e rigoroso della libertà di giudizio per la costruzione di un mondo migliore, se spesso prende spunto da autori antichi come Platone nella sua “Repubblica”, o Luciano di Samosata, o Seneca, o Terenzio, ha un suo fondamento nell’atteggiamento di Gesù Cristo come lo troviamo nel Vangelo. Citerò qui solo il contrasto che egli ebbe con gli scribi e i farisei del suo tempo, cioè i detentori del potere religioso (e sociale). Gesù mette in evidenza come il loro letteralismo nell’applicare le leggi religiose nasconda in realtà un indurimento del cuore, che li chiude ad una esperienza autenticamente spirituale ed impedisce loro, in nome dei precetti di Dio, di riconoscere che il Figlio di Dio è presente in mezzo a loro. “Ipocriti” è il termine con cui più frequentemente Cristo si rivolge loro, mostrando come Dio chieda molto di più di quanto essi prescrivono (e spesso non attuano).

Un secondo esempio è dato dall’incontro drammatico fra Gesù e Ponzio Pilato, in particolare nel Vangelo di Giovanni: entrambi si esprimono usando gli stessi termini, ma intendendo realtà molto diverse. Pilato, in particolare, si affida al buon senso ed alla logica della politica, mentre Cristo scava nell’abisso del cuore e della storia. Non ne può venire, da parte di Pilato, che una domanda quasi sprezzante: “Ma cos’è la verità?”. E Cristo non gli risponderà perché la risposta è già contenuta in quanto ha detto fino a quel momento, ma Pilato non l’ha colta. Questa tecnica dei due livelli è usata costantemente dall’evangelista Giovanni per manifestare come i pensieri di Dio siano infinitamente superiori alla povertà degli uomini nell’analizzarli e nel comprenderli, “per la durezza del loro cuore”. Il culmine di questo processo è la crocifissione del Dio venuto a mostrare quanto egli, che è amore, voglia essere con le sue creature tenero e misericordioso fino a dare per loro la sua ultima goccia di sangue.

Raffaele nell’“Utopia” dirà: “Se dovessimo rinunciare a dire le cose che possono apparire controcorrente, bisognerebbe tacere, pur essendo in un paese cristiano, su tutto quello che è stato predicato da Cristo. Esattamente il contrario di ciò che egli desiderava, come si deduce dalla raccomandazione ai discepoli di urlare dai tetti qualsiasi parola scivolata dalla sua bocca nelle loro orecchie. Ora, è chiaro che la maggior parte dei suoi insegnamenti sono molto più lontani dai costumi correnti, di quanto non siano le mie parole, ma a questo ha già pensato qualche astuto predicatore, modificandone il senso (…). “Non esistono comportamenti umani in linea con i principi cristiani”, devono essersi detti questi scaltri galantuomini. “Quindi, adattiamo questi ultimi ai primi, Alla fine si troverà un collegamento”.

Nell’“Elogio della Follia”, Erasmo parla della “follia” di Dio e del Vangelo (ma anche il grande teologo greco Nicola Cabasilas parla dell’“amore folle” di Dio nel suo “La vita in Cristo”, in tutt’altro contesto). Erasmo così commenta: “Lo stesso Cristo, per venire in aiuto all’umana sapienza, lui che è la sapienza del Padre, si è fatto in qualche modo stolto, quando, vestite le spoglie umane, si è presentato in forma d’uomo. Come si è fatto anche peccato per risanarci dai peccati. E non volle porvi altro rimedio se non la follia della Croce” (Elogio della Follia, n. 65).

Gli Umanisti, se dovessero commentare la frase del Vangelo “la verità vi farà liberi”, intenderebbero la verità sia come un uso intelligente e coraggioso della ragione, sia come la Verità incarnata: il Verbo di Dio fatto uomo (“Io sono la via, la verità e la vita”, disse Gesù), che è la fonte della somma libertà, fino al dono della vita per gli altri e per Dio.

E non è un caso che Thomas More dica a sua figlia Margaret, poco prima di morire assassinato: “La sua (di Dio) grazia mi ha fortificato sino ad ora e ha dato tanta serenità e gioia al mio cuore, da rendermi del tutto disposto a perdere i beni, la patria e persino la vita, piuttosto che giurare contro la mia coscienza. (…) Dubitare di lui, mia piccola Margherita, io non posso e non voglio, sebbene mi senta tanto debole. E quand’anche io dovessi sentire paura al punto da essere sopraffatto, allora mi ricorderei di san Pietro, che per la sua poca fede cominciò ad affondare nel lago al primo colpo di vento, e farei come fece lui, invocherei cioè Cristo e lo pregherei di aiutarmi. Senza dubbio allora egli mi porgerebbe la sua santa mano per impedirmi di annegare nel mare tempestoso”. L’“utopia” può essere durissima anche con le debolezze degli uomini della Chiesa, ma la sua fantasia, e persino lo scherzo e lo scherno, sono profondamente fondati nella fede in Cristo. Essa non è un gioco politico, non si vende al migliore offerente e, quando si sbizzarrisce per immaginare un mondo coerente col Vangelo, lo fa disposta a pagare fino in fondo per la libertà.

È per non aver compreso questo riferimento “cristiano”, che molti rimasero scettici di fronte ad alcune espressioni o concezioni degli “utopisti”. Sarebbe profondamente sbagliato credere che essi intendano descrivere per filo e per segno il mondo ideale. Loro intento è provocare chi considera la società tale quale è come l’unico mondo possibile. Essi sanno persino scherzare, e prendere in giro se stessi. Spesso alcuni dei dettagli che usano non hanno alcun senso, o sono volutamente ridicoli, come il fatto che gli abitanti di Utopia covino le uova delle galline al posto di esse per fare in modo che i pulcini seguano loro, e non le madri, una volta nati. D’altronde lo stesso More, portato al patibolo, chiede di essere aiutato a salire: “Quanto a scendere, lo farò da solo”. Che rapporto sereno con la vita e con la morte!

Il genere letterario che usano è il paradosso. Ma paradossale è anche il procedimento che ho descritto a proposito del Vangelo di Giovanni. In termini teatrali, esso si chiamerebbe “ironia drammatica”: l’autore condivide con lo spettatore qualcosa che al personaggio in scena è ignoto. Il nostro parlare di Dio, poi, è “aporetico”, cioè tale per cui due aspetti contraddittori possono essere entrambi possibili. Della verità conosciamo soprattutto quello che non è. Per questo “utopia” è il “non-luogo”, Amaurotum, una sua città, ‘ “l’oscuro”, Anydrus, il suo fiume, “senza acqua”, ademo, “senza popolo”, il loro principe. Nel linguaggio della liturgia, soprattutto orientale, i titoli attribuiti a Dio, sono spesso costruiti allo stesso modo: “in-finito”, “in-mortale”, “in-accessibile”, ecc. Ecco un altro aspetto che utopia ha in comune con la religione: l’incognito come affascinate orizzonte della ricerca, contro la pedanteria dei teologi o degli studiosi in genere, che pretendono di contenere il mistero nelle loro semplici formulette.

In “Utopia” ci si riferisce alla beatitudine eterna nel paradiso. È la ragione (che oggi sembrerebbe discutibile) per cui sono esclusi dall’autorità in Utopia gli atei, cioè coloro che non credono alla vita dopo la morte. Essi finirebbero, senza questa speranza, col lavorare solo per sé. Al di là di questa scelta un po’ grottesca, il pensiero dell’eternità, del regno di Dio, come giudizio sulla città degli uomini e sulla loro pretesa di definitività, l’attenzione alla Gerusalemme celeste, la città perfetta, alla cui luce dobbiamo cercare di costruire la società, certamente influenza molto la letteratura “utopiana”. Immagini potenti e misteriose del destino della storia sono offerte dalla Bibbia nel libro dell’Apocalisse. È proprio in nome della perfezione dell’eternità che si giudica la storia, se ne valutano le contraddizioni, le mancanze, le maldestre imitazioni. Questa visione della storia in cammino verso l’eternità è presente in tutta la cultura cristiana, fino all’interpretazione, ad esempio, che di recente ne diede lo scienziato e teologo Pierre Teilhard del Chardin, con destinazione dell’“homo noeticus”, l’uomo nuovo, preludio della convergenza dell’umanità verso il “punto Omega”, che è il Cristo ricapitolatore, verso cui si dirige il movimento gravitazionale dell’universo.

È proprio questa concezione della storia, tra la creazione nel giardino di Eden e il compimento nella Gerusalemme celeste (che significa contemporaneamente il senso della vita, individuale e sociale (perché ha non solo una fine, ma un fine), e la sua relatività, che ci consente di notarne i limiti e di combattere per superarli. Ed è forse la mancanza di questo orizzonte nel comunismo ateo che ha fatto precipitare su se stessa, come un castello di carte, l’ideologia della “dittatura del proletariato”. In questa visione infatti il compimento della storia è previsto già sulla terra. Dunque chi lo governa acquista quasi una intangibilità, un’infallibilità profetica. Contraddirlo è bestemmia, opporsi è delitto. In questa visione, invece, né sacra, né intangibile è la persona umana, se è solo frammento di una massa, e non, come abbiamo visto in Utopia (ma prima ancora della teologia cristiana della creazione dell’uomo “a immagine e somiglianza di Dio”), un assoluto al quale nulla si può anteporre. E poi non dimentichiamo la differenza abissale che esiste tra chi “sogna” un mondo diverso, come l’utopista, e chi può certo partire dai medesimi presupposti ed arrivare a qualche conclusione comune, ma sulla base di un sistema di pensiero che ritiene scientifico e rigoroso. In fin dei conti, l’utopista dell’Umanesimo, di fronte alle obiezioni, può sempre rispondere: “Ma io stavo scherzando”. Quando invece l’eternità muore, la storia si assolutizza e il modo di esaminarla è considerato come l’unico possibile, allora il gulag si fa pericolosamente vicino all’utopia, come luogo dove sono costretti a vivere coloro che si sono concessi, in nome della loro dignità, la libertà di dissentire. Ma questo “dissentire” fu proprio la conquista degli utopisti.

 

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